Mi è stata fatta una richiesta personale, postare un racconto lasciando completamente anonimo (per ora) l'autore.
Lo stesso ha espressamente chiesto di "massacrarlo con i giudizi".
A voi la palla.
DAP - VIAGGIO NEL VIAGGIO-
La grossa station spezzava la pioggia, nell’aria scura spruzzata dalle scie dei fari delle altre vetture, a velocità sostenuta. Desi aveva sempre scelto macchine grandi nelle quali la sua figura minuta si intravedeva appena, forse per riempire quello spazio lasciato vuoto dall’accoppiata autostima-sicurezza piuttosto latitante nel suo essere. Era una cosa stupida, lo sapeva, ma si lasciava andare a quel piccolo sfizio senza interrogarsi più di tanto sui risvolti psicologici della faccenda.
Non lo riconobbe subito. Ghigliottine come dighe, impietose e spietate, calarono all’improvviso nelle arterie dei polsi e delle caviglie lasciandole le estremità formicolanti e insensibili. Quasi all’unisono atri e ventricoli si produssero in un concerto sguaiato di note stonate ma decise, che la fecero boccheggiare: panico, terrore vischioso e paralizzante. Desi riuscì, appellandosi disperatamente ad un qualche residuo di lucidità stagnante nel suo essere, ad arrestare la grossa auto sulla corsia d’emergenza di quel tratto d’autostrada a quell’ora gremita di veicoli, ad inserire le frecce d’emergenza e a spalancare tutti i finestrini. Clacson e luci veloci e il rumore di grossi pneumatici rombanti e aria spostata la investirono... Calma, calma, calma. Riuscì a dirselo mentre tentava di scacciare brividi di terrore di tutti i tipi che si facevano gioco della sua proverbiale fermezza. Intimò al suo cervello d’intimare alle sue mani e ai suoi piedi di rimettersi in funzione: riuscì a riavviare il motore e ad incalanarsi di nuovo nella scia di colori e rumori che procedeva verso sud.
I minuti che seguirono s’incappucciarono di buio e non li ricordò mai più.
La coscienza vigile, seppur barcollante, riaprì i battenti sul flash delle proprie mani a spingere il vetro sporco all’ingresso dell’autogrill. Prese una bibita a caso, addirittura una di quelle energetiche assolutamente fuori luogo in quel momento, e uscì nella notte senza avere idea sul da farsi, nessuna possibilità razionale ad illuminarle i pensieri.
La chiesa era esattamente come l’aveva sognata e, avanzando al braccio del padre, rivestita di felicità bianca, fu la splendida protagonista del rito: sorrise, abbracciò, baciò come da copione, firmando in quell’istante il suo assenso alla condanna di fiera ammaestrata che avvertiva come un rumore fastidioso in sottofondo, ululante in un angolo del sua coscienza. Si ritrovò infatti, per anni, ad obbedire al suo domatore, e si compenetrò nella sua condizione fino a considerarla la normalità, fino a non scorgerne, neanche da lontano, il perimetro. A distanza di 10 anni da quel “sodalizio” nella mente del marito, lei, Desi, occupava solo un piccolo spazio, quello che si conviene ( e concede) ad una casalinga mediocre, priva di qualità degne di nota. Per quanto insignificante però, era considerata comunque una proprietà del padrone.
L’ormai fisso pensiero della fuga era lì, nella sua testa, come un inquilino fuori dagli schemi e un po’ originale, ma incatenato alla realtà dei fatti dal tocco consapevole delle sue dita su frange patologiche comportamentali di lui, condite di impercettibile doppiezza e che emanavano dinamite pura.
Gironzolando nell’area di servizio Desi si convinse che l’unica possibilità possibile era quella di appoggiarsi ad un altro essere umano che l’aiutasse a lasciare quell’autostrada: era lei la causa del panico, una strada che non prevede inversioni di marcia repentine sulla quale aveva avviato IL viaggio del corpo e dell’anima. Si avvicinò all’uomo dentro la Volvo concentrato su un portatile e bussò delicatamente con le unghie al finestrino chiuso; lui le indirizzò in tutta risposta uno sguardo tra l’infastidito e il sorpreso mentre le fece cenno di aspettare. Finì di scrivere qualcosa, abbassò leggermente il vetro e le chiese, con un cenno del capo dal basso verso l’alto, cosa volesse. Desi, sforzandosi di non piangere, era bravissima in questo, gli spiegò che aveva bisogno di una “scorta” fino all’uscita successiva. Era lontana centinaia di chilometri da casa di sua sorella ma percorrendo strade normali era sicura di riuscire a guidare senza panico. L’uomo disse ok, mosso da non si sa bene quale motivazione, forse pena, e così si avviarono, lui davanti e la station dietro.
Le poche decine di chilometri che percorsero una dietro l’altro furono costellate da almeno una decina di fermate in cui Desi, afferrata dalle falangi secche del panico, scosse di assestamento del feroce sisma che l’aveva sconvolta un’ora prima, accostava, piangeva e quasi sveniva, mentre lui, quella specie di angelo di pochissime parole, sporgeva leggermente la testa nell’abitacolo dell’auto di lei e lo riempiva di morbida rassicurazione. Attraversarono anche una corta galleria che la lasciò senza forze: l’assenza della corsia d’emergenza le faceva balzare agli occhi immagini di una strage causata da una sua perdita di conoscenza. Se avesse percorso quel piccolo tratto chiuso a piedi scalzi su carboni ardenti forse avrebbe sofferto meno. All’uscita si fermò (naturalmente) e quando lui, per l’ennesima volta, scese dalla sua auto e la raggiunse, lei realizzò che aveva bisogno, insensatamente, di avere con sé qualcosa di tangibile che potesse, come per magia, ricondurla a lui all’istante: il suo numero di telefono, per favore. Che cosa sciocca! Ma cacciò il bigliettino in borsa e ripartirono, come in una via crucis assurda.
Prossima uscita Ancona sud. Ci siamo.
Il muro che l’isolava dal marito cominciò ad erigersi il giorno degli orali del suo importantissimo concorso. Desi uscì di casa per affrontare la prova dopo avergli appoggiato la tazzina del caffè sul comodino, allegra e fiduciosa; lo amava nonostante lui non smettesse che di rado il suo costume da domatore. Era stata brava, aveva svolto una prova soddisfacente e in meno tempo del previsto. Prese una bottiglia del loro vino preferito e quei dolcetti delle occasioni speciali che lui adorava per raggiungere di corsa la strada dove abitavano ma, non appena voltato l’angolo dal quale si scorgeva il loro portone, vide lì parcheggiata la macchina di Giusy, sua cugina. Una luce vivissima, improvvisa, sotto forma di una serie di flash in successione, le illuminò finalmente il cervello, ottenebrato fino ad allora dalla fiducia e dai buoni sentimenti, anche se, a dire il vero, una moltitudine di campanelli non aveva mai smesso di suonare a ripetizione per tentare di svegliarla.
Il muro di silenzi e abitudini e rancori, senza possibilità di breccia, iniziò a piazzarsi inesorabilmente nel suo essere.
Pagò il pedaggio e fuggì letteralmente dall’A14 dimentica dell’uomo che l’aspettava, gentilissimo, all’uscita, ma non ce la fece a proseguire se non per qualche chilometro. Per fortuna sua sorella era una donna molto perspicace e si era messa in viaggio per andarle incontro. La trovò davanti ad una camomilla in uno squallido bar, mentre un paio di camionisti si prodigavano intorno a lei ad offrirle passaggi, e la portò a casa.
Fin da piccola Desi si prefigurava la vita come una serie di piattaforme, non più di 4 o 5, sospese nel vuoto e collegate da nastri di congiunzione senza bordi. Ne stava attraversando uno proprio in quel momento, pericolosissimo e forse il più importante di tutti. Stava abbandonando la piattaforma dell’agio, dell’essere una “signora” agli occhi del mondo, per avventurarsi nel successivo pezzo di vita senza nessuna prospettiva reale. Corde invisibili però la tenevano ancora legata alla piattaforma dalla quale fuggiva, perfino il suo corpo si ribellava e le stava impedendo di proseguire: forse la paura che lui le potesse fare del male fisico voleva proteggerla impedendole di allontanarsi.
Si svegliò a mezzogiorno nella stanza degli ospiti a casa di sua sorella. Ci mise qualche minuto a riacchiappare i brandelli del giorno prima e a sistemarli in un qualche ordine logico; si sentiva il cervello intorpidito e stremato come se fosse stato lui stesso a correre fisicamente lontano dalla sua vita. E anche i giorni successivi li impiegò a ristorarsi e a studiare un piano logico di sopravvivenza, fino a quando, rovistando nella borsa della fatidica sera alla ricerca di un lucidalabbra, non si imbattè in un biglietto da visita... Mio Dio, l’aveva completamente dimenticato! Come aveva potuto cancellare dal senno quella specie di angelo sconosciuto che l’aveva condotta dolcemente fuori dall’inferno? Gli inviò immediatamente un messaggio firmandosi “panico”. Lui la chiamò all’istante.
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“Mammaaaaaa!!! Fanci mi pppaventa con il mottro. Io ho panico!!!”
Desi scoppiò a ridere davanti alla sua piccolina che pronunciava per la prima volta quel termine inciso a fuoco nel suo cuore. Si buttò, passando per lo schienale, addosso all’uomo sul divano e si lasciò avvolgere ancora una volta dalle ali dell’Angelo. Risero insieme mentre si abbracciavano forte...