Passi nella notte.
Codice autore: 09****
Sono stufa! L’ennesima discussione per motivi futili, mi ha annientata. Però sono contenta, sono riuscita a sorprenderlo, io così arrendevole, questa volta mi sono chiusa la porta alle spalle e sono uscita.
E’ la prima volta che lo faccio, in genere è lui che sbatte la porta e va via per poi tornare all’alba, lasciandomi sola a pormi mille domande sul nostro rapporto ormai sfilacciato, senza possibilità di un domani e che poi, riprende stancamente nella sua monotonia. Nessuno di noi vuole fare la prima mossa e continuiamo per inerzia nella solita routine; fondamentalmente abbiamo paura di stare da soli.
Accidenti, non pensavo ci fosse tanto freddo, sono proprio una stupida, ho lasciato su le chiavi della macchina, ma non posso certo dargli la soddisfazione di tornare indietro!
Ora mi sento dannatamente bene, perché non mi manca, perché questa statica quotidianità mi stava spegnendo pian piano. Che ore sono? Le due! Non mi sono mai avventurata da sola nel buio della notte. Voglio pensare positivo, allontano dalla mente tutte le notizie di cronaca nera; ammetto che sono in pace con me stessa per la decisione presa, ma preoccupata allo stesso tempo perché in giro non c’è proprio nessuno, cerco di aumentare il passo.
Respiro a pieni polmoni quest’aria così pulita, il vento del pomeriggio ha portato via lo smog. Qualche macchina passa sgommando nelle strade deserte. Cerco di mimetizzarmi nell’ombra delle case, non voglio fare brutti incontri. Il buio crea strane illusioni ottiche: le strade sembrano più strette, le case più vicine e il cielo nero, senza neanche una stella pare non esista più. Il bagliore giallo dei lampioni illumina i rami scheletrici degli aceri, sembrano tanti alberi infernali; tra le cime più alte si intravvedono sparpagliati, tanti stormi neri a forma di palla attaccati a quelle fronde nude. Si capisce che sono vivi solo perchè ogni tanto qualcuno di loro si muove in cerca di una posizione migliore e subito dopo si levano alti stridii fastidiosi.
Non devo farmi prendere dalla paranoie e dalla mia galoppante immaginazione, e anche se la città è avvolta da un silenzio opprimente, devo pensare a cose positive. Quante volte ho desiderato durante la giornata di potermi trovare da sola e non nella metropolitana con una moltitudine di gente che ti sfiora ma non ti vede, mai uno sguardo amico, ognuno chiuso in se stesso e con una barriera invisibile ma insormontabile che divide l’uno dall’altro. A volte guardo quei visi spenti, ma nessuno di loro si accorge di me. Una volta mi era capitato di aspettare il treno che non arrivava, tutto il traffico bloccato e la gente che si risvegliava improvvisamente dal torpore quotidiano e inveiva mentre controllava l’orologio e telefonava al posto di lavoro per avvertire del ritardo. Era successo di nuovo, qualcuno aveva posto fine a quella non vita, gettandosi sotto il convoglio in qualche stazione precedente, questo non creava stupore, indignazione, pena, no, solo fastidio e rabbia per quel tempo perso inutilmente. Scaccio quei brutti pensieri e mi godo quel silenzio interrotto solo dal rumore dei miei tacchi sull’asfalto che mi fa compagnia.
Per fortuna non sento più freddo, sono già venti minuti che cammino a passo svelto.
Passato l’angolo, seduto nel marciapiede intravvedo un uomo, non riesco a distinguere chi sia, ah si, è uno dei barboni che girano nel centro storico. Avrà cinquant’ anni ma ne dimostra molti di più. E’ magro ha un colorito giallognolo, gli occhi cerchiati, la barba lunga, ha indosso un giaccone lercio e tra le mani una bottiglia quasi vuota. E’ appoggiato al muro di una casa, mi fa una gran pena, di lui mi ha parlato una signora alla fermata dell’autobus, ha avuto una vita travagliata. La convivente è morta di cancro e da allora ha iniziato a bere, ha perso il posto di lavoro e ora vive di carità, va a mangiare alla mensa dei poveri e trova sempre qualcuno che gli regala una bottiglia di vino in cui può annegare il suo non vivere.
Lo supero ma lui non si accorge neppure di me, è chiuso nel torpore del suo mondo. Mi sento in colpa, lo evito come fanno quasi tutti.
Il bar della piazza per fortuna è aperto. Entro e il caldo del locale mi accoglie come una carezza. Mi siedo a un tavolino all’angolo e guardo stupita, io che di notte non esco mai, il popolo della notte! Un metronotte al banco sta pagando la sua consumazione ed esce per riprendere il suo lavoro; alcune infermiere del vicino ospedale ridono divertite alle battute un po’ spinte del proprietario del locale; una donnina allegra, mio padre le chiamava così, è in piedi vicino alla porta e parla al cellulare a voce alta con un potenziale cliente con un linguaggio che è tutto una promessa. La guardo di sottecchi, ha un trucco esagerato, le ciglia finte malmesse danno al suo sguardo un ché di buffo e di insolito. Ha un seno esagerato che sborda dalla scollatura del mini abito e un impermeabile nero luccicante cortissimo, mi chiedo come facciano a vestire così anche d’inverno. Sembra uscita da un film di Fellini.
La cameriera arriva e io mi voglio premiare per la libertà riconquistata con una goduriosa cioccolata calda, già pregusto quella bontà. La cioccolata densa mi bagna le labbra e solletica le mie papille gustative, che delizia!
In quel momento suona il cellulare, non rispondo, è inutile che chiami, con te ho chiuso. Basta alle cose desiderate e mai realizzate, voglio vivere nuove emozioni, circondata da cose semplici e da nuove amicizie scanzonate, sono stanca di sopravvivere.
Dopo un po’ arriva un sms “Sto andando via è inutile che continuiamo così”
Non mi fa nessun effetto, anzi sono quasi contenta che pensi di essere stato lui a lasciarmi, per me la storia era già chiusa da tempo anche se non volevo ammetterlo.
Sono le quattro, non ho per niente sonno, esco dal bar e una sorpresa mi attende, la strada è coperta da un bianco tappeto brillante, i miei passi non si sentono più, mi volto ed è curioso vedere solo le mie orme in quella coltre perfetta, una macchina passa silenziosa e molto lentamente per non slittare, l’aria da grigia qual’era è diventata rosea e guardando verso l’alto il turbinio dei fiocchi che scendono fanno venire il capogiro. Gli alberi grigi di prima non sembrano più gli stessi, sono coperti da cristalli di neve e si sono trasformati, non incutono più paura ma serenità. Gli storni sono spariti in cerca di riparo. Fra poche ore tutto questo sarà solo un ricordo, la neve diventerà fradicio fango e quella che si salverà ai bordi della strada sarà nera dalla fuliggine. Sono contenta di essere una delle poche persone a godere della purezza di tutto questo.
Alzo lo sguardo e vedo nel palazzo vicino, al primo piano, una finestra illuminata e una vecchina che mi guarda attraverso i vetri, evidentemente non riesce a prendere sonno, guarda anche lei la nevicata improvvisa, mi fa un cenno di saluto con la mano, le rispondo. Gli anziani non sono come noi, sanno godere minuto per minuto del tempo che trascorre e hanno necessità di sentire che non sono soli, si accontentano anche di un contatto umano a distanza con una passante che gironzola per le strade nel mezzo della notte.
Improvvisamente mi viene in mente il barbone, allungo il passo e lo trovo ancora lì come l’ho lasciato, è coperto di neve, sembra addormentato, provo a chiamarlo, a scuoterlo ma non risponde è gelato, mi viene il panico, mi tolgo la sciarpa calda dal collo e gliela metto intorno al viso. Gli strofino le mani, non so cosa fare. Chiamo il 118 e mentre aspetto che vengano, provo a massaggiargli il corpo con frenesia e dopo dieci minuti interminabili sento una sirena in lontananza che si avvicina; in quel momento sento che farfuglia qualcosa e apre gli occhi. Dio ti ringrazio, non è morto! Due infermieri portano giù la barella, adagiano l’uomo lo coprono con una coperta termica lo caricano sull’ambulanza e uno di loro mi dice che quello è il quarto che portano all’ospedale, uno di loro non ce l’ha fatta. Guardo l’ambulanza ripartire e mi sento sollevata.
Torno verso casa, l’aria si è un po’ addolcita, un armonioso silenzio rotto solo di tanto in tanto da una folata di vento fa compagnia ai miei pensieri.
Un’ immagine torna alla mia mente: da bambina aprivo la finestra, prendevo una manciata di neve e la succhiavo come fosse un prelibato ghiacciolo. Allora, apro la bocca e cerco di afferrare quei fiocchi larghi che sembrano batuffoli di cotone e che a contatto con il mio alito caldo si sciolgono velocemente e allora rido, rido perché sto bene e non penso a nient’altro, mi godo quel momento, quel sapore, e quell’attimo fino all’ultima goccia.
VOTATE!!!
Edited by SirLancillotto - 1/12/2009, 08:24