LA MOLTITUDINE DEI NUMERI NOVE
Tutte le sfumature della voce di Freddy Mercury (
“If there's a God or any kind of justice under the sky”) mi sfilano dentro, mentre mi vesto davanti ad uno specchio freddo che non riesce ad animarsi dei miei gesti; scorticano, poi accarezzano l'anima. Indosso i miei jeans preferiti, il top con le spalline argentate e i sandali con la zeppa, sorprendendomi di avere ancora in essere sinapsi tanto frivole da dedicarsi a tale operazione.
Sono scesa dal letto figurandomi in frantumi, credendo di girare per casa raccattando pezzi, dopo le notti spese a girellare tra cucina e salone e sigarette spente a metà, come un’ombra in bilico sul crinale dell'adesso che divide quello che è stato da quello che sarà, e mi trovo invece singolarmente lucida, come all'estremità di un imbuto inevitabile, minaccioso ma non troppo.
Guido con movimenti sicuri e automatici, i pensieri sincronizzati sul ritmo del paesaggio che scorre aldilà dei finestrini: è la fine di maggio e la campagna espone tutti i colori tenuti nascosti per mesi; soprattutto i verdi, in decine di tonalità, vengono offerti spudoratamente alla luce che li fa sfavillare in uno scintillio che incolla cielo e terra con uno zip da cartone animato. Conosco bene questa strada e tutte le variabili che la incorniciano; rallento parecchio sul rettilineo decorato da altissimi ippocastani che si abbracciano in alto a formare una galleria naturale, prima di svoltare l'ultima curva (
“I'm walking a fine line between hope and despair”).
La silhouette regolare del mio ex-paesone, scartata come un cioccolatino dalla carta verde, è interrotta dallo svettare della struttura sanitaria presso la quale mi sto recando, che le dà ritmo e un tocco di tristezza (almeno a me così sembra).
Parcheggio e, prima di scendere, fermo fisicamente la testa appoggiando la fronte sul volante: richiamo a me parabole di ragione, inaspettatamente confortata da quella sensazione di leggerezza, audace visto il momento, avvertita in lontananza fin dal risveglio. Sono pronta, metto la borsa a tracolla e apro lo sportello sbilanciandomi col busto leggermente a destra per permettere alle gambe di ruotare con maggior facilità. E' in quel preciso istante, nel tragitto tra la scocca dell'auto e l'asfalto, senza che io l'abbia propriamente deciso, che i miei piedi compiono l'antico rituale. In pochissimi secondi le punte e le caviglie, in sincronia cronometrica, disegnano quell'infantile ghirigoro propiziatorio nell'aria... era il '74, avevo 9 anni, calzini corti e sandali con i buchi, la stessa paura ghiacciata e la stessa impotenza mista a speranza, congelate nel tempo, di adesso. Allora stavo approdando in una città nuova, in una casa nuova, in una vita nuova; vibravo di incognite nello spartiacque di nessuno dove nessuno ero per nessuno (
“Sometimes I get to feelin' I was back in the old days-long ago”).
M'incammino pensando al percorso tracciato nei muscoli da tutte le prime volte che facciamo qualcosa e alla loro memoria indelebile, mentre Freddy dall'auricolare non si stanca di camminarmi dentro (
“Empty spaces-what are we waiting for”).
Sono l'ultima di una fila composta, e ho come la sensazione che tutte queste persone siano altrove con la testa, nessuna connessione tra noi a dimostrare il contrario. Avanzo lentamente e quando finalmente non ho più passi da compiere, la signorina allo sportello, fredda come un'autopsia, fa scivolare la busta col mio nome sul piano simil-legno sotto il vetro verticale (
“what are we living for..”) che mi fa pensare ad una ghigliottina che potrebbe tranciarmi le dita. Tengo in mano un ossimoro autentico mentre torno sui miei passi; ghiaccio bollente, velluto pungente, silenzio stridente, squilibrio strutturato: uno sbilanciamento di pensieri previsto ma ugualmente fragoroso nella sua potenza. Adagio l’involucro sottile sul cruscotto e continuo a fissarlo: mi aspetto di vederci tutti, ma proprio tutti, i miei pensieri allineati sopra e invece, con uno scarto neanche tanto improvviso, quelli se ne tornano a gironzolare su quel gesto infantile. Mi risucchia l'idea dello scoprire quando, dopo quella prima volta, l'ho fatto ancora e a distanza di quanti anni una dall'altra.
Guido con Freddy a volume da codice penale mentre conto gli anni in un meta-ragionamento simil-geometrico a ritroso, cercando di orientarmi nei quarantacinque trascorsi finora. Il detonatore col potere di sbriciolarli tutti con un colpo secco giace, sempre intonso alla mia destra, nel suo bianco finto-sposa.
Ad aprire il varco dell’assurda teoria che mi occhieggia nella testa, la cattura con pesca a strascico dell’immagine di me davanti al Tribunale, lo stesso acido cloridrico a urticare le pareti gastriche, la stessa sensazione di stare trascorrendo gli ultimi minuti di una vita usurata (e usurpata), con davanti solo l’incognita di un se, lo stesso rituale mantrico ad autoincoraggiarmi. L’ultima volta: nove anni fa!
I ricordi a volte tracciano scie imperfette dentro di noi ma quella che seguo adesso è stravagantemente armonica: tornanti di nove anni ciascuno, perfettamente sincronizzati tra loro sullo stesso accordo che ha dello stupefacente pragmatismo teatrale. Rapida, scremo tutta la mia vita con la velocità di uno shuttle che buca l’atmosfera; tralascio buccia e nocciolo, mi concentro sugli spicchi, cinque pezzi di polpa collegati da un gesto antistaminico e pazzoide al quale comincio ad attribuire capacità metafisiche: aver agganciato al meglio, per me, di volta in volta, il blocco (da nove anni naturalmente) successivo (
“is this the real life, is this just fantasy”?).
Contando i tornanti i conti tornano (cinque, uno ogni nove anni). Li ripercorro all’indietro, colgo senza fatica gli ultimi due: la curva a gomito dell’immane crollo finanziario che mi spinse fin quasi all’elemosina, a ventisette anni, e nove anni prima, nell’’83, l’incidente occorso alla persona a me più cara. Cinque cifre esatte dell’anima, quattro risoluzioni.
Affronto lenta l’ultima piega quasi innaturale della strada che torna su se stessa un po’ più in basso. E realizzo di crederci davvero. Apro la busta mentre un sorriso autonomo s’impadronisce dei lineamenti del mio volto prima ancora di leggere il referto.
L’ultimo giorno si disfa così, silenzioso. Solo il rumore delle lacrime di gioia a suggellare l’avvento del sesto primo (
“got to be some good times ahead”).
VOTATE!!!
Edited by Team Tema Libero - 1/10/2010, 15:02